Recensione: Il Tropico dei Perdenti

Copertina de Il Tropico dei Perdenti di Roberto Parodi
Scheggia è ancora sulla strada – in verità sulle piste del deserto africano -, e questa volta con una missione: aiutare Ashanti, la giovane infermiera del Mali che gli ha salvato la vita e che vuole rintracciare la sorella, perduta lungo le rotte dei migranti, smarrita in quel fiume di individui disperati, sfruttati e abusati che rischiano tutto per attraversare il Sahara e raggiungere le coste del Mediterraneo, e da lì, forse, approdare in Europa. Una vera odissea attende la coppia, un’avventura gonfia di pericoli e meraviglie, di moto distrutte e ricostruite, di incontri di ogni tipo, di paure e speranze, di violenza e solidarietà, di vento, sabbia e sole. Un viaggio che offrirà a Scheggia l’ultima occasione per dare un senso alla sua inquietudine, alla perenne sensazione di fallimento, e per trovare un significato più grande al suo eterno vagabondare.
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Il Tropico dei perdenti è il nuovo romanzo di Roberto Parodi, scrittore e giornalista televisivo appassionato di motocicletta. Ci racconta la terza avventura di Scheggia, protagonista di altri suoi libri. Egli si trova nel deserto del Mali per aiutare la bella infermiera Ashanti a ritrovare la sorella, scappata dal suo villaggio di origine forse in cerca di migliore fortuna in Europa, attraverso quella rotta migratoria sud-nord che è al centro delle cronache attuali.
Sicuramente molto bello è l’approccio umanitario del protagonista che non si tira indietro davanti alle difficoltà per aiutare il prossimo. Qualcosa che tutti noi dovremmo imparare.
Molto apprezzabile è l’idea di affrontare in maniera più leggera un argomento tanto complesso e incompreso come la rotta dei migranti dal Sahel verso l’Europa. Sul lato più squisitamente “tecnico” per gli operatori umanitari, alcune cose sollevano alcune perplessità.
Innanzitutto sembra che il lavoro di ricerca non sia stato molto accurato. Per essere un libro scritto nel 2018, alcune cose non tornano, per esempio affiancare i Ghanesi ai Nigeriani come maggiore nazionalità di migranti in un villaggio di transito verso la Libia.
Il Tropico dei perdenti è anche ambiguo nel suo scopo: l’autore vuole raccontare l’odissea dei migranti o delegittimarla? Sono numerosi e onestamente eccessivi i richiami ai più classici e banali “la maggior parte non ha diritto allo status di rifugiato”, oppure “vengono solo per migliorare la propria situazione” ponendo l’accento sul “solo”, come se non fosse una motivazione valida per lasciarsi alle spalle il proprio paese e la propria famiglia.
Un confronto con degli addetti ai lavori avrebbe potuto chiarire meglio molti aspetti della migrazione, un argomento complesso e che necessita di ulteriore comprensione. Per esempio si potrebbe spiegare a Roberto Parodi che lo status di rifugiato non è legato alla provenienza da un paese in guerra, anche se ciò può fare aumentare di molto le probabilità che il migrante ne abbia diritto.
Reputo un po’ banali anche i molteplici tentativi di dire che i migranti dovrebbero stare a casa loro per migliorare il continente africano, con molta approssimazione sui motivi che spingono “solo a migliorare la propria vita” per citare il libro.
Il lessico è da motorista più che da giornalista. Quasi tutto è “bastardo” o “di merda”, che anche se legittimo nel mezzo dell’infido Sahara, un giornalista avrebbe potuto esprimere gli stessi concetti in maniera più elegante.
In conclusione Il Tropico dei perdenti è un libro da leggere senza grosse pretese. Ci sono delle esagerazioni negli avvenimenti, tipo la partenza “alla Kill Bill” che sono accettabili se l’opera è letta senza aspettarsi un realismo eccessivo. Sicuramente adatto agli amanti delle due ruote che ameranno le vicende dell’Harley Davidson di Scheggia alle prese con le insidie del deserto maliano e libico.
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